Investimenti low-carbon, così l’Europa sta rimanendo indietro

Nel corso del 2016 si è accentuata la contrazione degli investimenti energetici a livello globale.

 

Dopo il ribasso di oltre l’8% sperimentato nel 2015, l’International Energy Agency (IEA) registra un’ulteriore riduzione, di circa il 12%, nello scorso anno.

 

Il segmento dell’Oil&Gas continua a essere la principale zavorra del settore, ma la dinamica si è riverberata anche sul comparto della trasformazione e sulle nuove fonti di energia rinnovabile (NFER), mentre gli investimenti in efficienza energetica e nello sviluppo delle reti continuano a crescere, rispettivamente, del 6 e del 9%.

 

Il flusso crescente di capitali confluiti nel segmento della trasformazione e in quello delle reti ha spinto la componente low carbon al 42% degli investimenti energetici globali, facendo registrare uno storico sorpasso sulla componente Oil&Gas, scesa contemporaneamente al 40% a causa del perdurare dell’oil glut.

 

Nuovi equilibri

 

Cina e Stati Uniti continuano a guidare la classifica dei Paesi più dinamici, assorbendo rispettivamente il 21% e il 16% degli investimenti globali.

 

La Repubblica Popolare prosegue nel programma di rinnovamento del parco centrali e delle reti (di distribuzione e di trasmissione), mentre la “shale revolution” ha innescato una rimodulazione complessiva del sistema energetico statunitense nella direzione di un maggior grado di differenziazione ed efficienza.

 

L’Unione Europea arranca in terza posizione totalizzando circa il 10% degli investimenti globali, incalzata dall’India in forte crescita al 9%, e ormai sempre più nella scia del gigante asiatico e dell’alleato americano.

 

Dopo essere stato il motore politico e culturale della transizione energetica, il Vecchio Continente è rimasto vittima del deficit istituzionale e competitivo che patisce nei confronti dei due maggiori contendenti alla leadership energetica globale.

 

L’UE, priva degli strumenti di pianificazione economica e delle capacità di moral suation nei confronti dell’industria nazionale di cui dispone la Repubblica Popolare, sprovvista di un tessuto produttivo elastico e dinamico come quello statunitense, non è riuscita a tradurre la carica morale in leadership tecnologica e industriale.

 

La svolta cinese

 

Nel corso dell’ultimo decennio, infatti, l’indirizzo strategico di Cina e Stati Uniti è radicalmente cambiato. L’ascesa di Ji Xinping ha impresso una svolta alle ambizioni della Repubblica Popolare.

 

Dopo decenni di massicci investimenti nell’industria del carbone e in centrali coal-fired, la strategia energetica cinese ha rapidamente virato verso tecnologie low-carbon e zero carbon.

 

Un cambio di direzione in parte legato al preoccupante aumento dei costi impliciti legati all’inquinamento, in parte alla necessità di liberarsi dello stereotipo di Paese-fabbrica e di accreditarsi come un’economia avanzata.

 

La reattività del sistema produttivo cinese è stata impressionante.

 

La campagna di razionalizzazione della capacità termoelettrica ha determinato il congelamento di numerosi progetti di nuove centrali e la progressiva sostituzione dei generatori a carbone di tipo subcritical (dispositivi che operano al di sotto della pressione critica dell’acqua) con generatori supercritical e ultra-supercritical (dispositivi che operano a pressioni superiori a 22 MegaPascal), con un conseguente taglio delle emissioni e aumento dell’efficienza.

 

Platts rileva che già attualmente quasi la metà delle centrali a carbone cinesi (44%) impiega generatori supercritical e ultra-supercritical.

 

Sempre sul fronte della generazione termoelettrica, Pechino ha avviato anche importanti progetti nel campo della cattura e del sequestro del carbonio (Carbon Capture and Storage - CCS). Al momento in Cina sono in fase di costruzione impianti di CCS per una capacità pari a quasi 10 milioni di tonnellate di anidride carbonica l’anno.

 

Last but not least, la Cina ha consolidato la leadership industriale globale nel segmento delle nuove rinnovabili.

 

Nel corso degli ultimi due anni la Repubblica Popolare ha attratto investimenti nel segmento delle NFER per circa 180 miliardi di dollari, pari al doppio della quota Usa e al 50% in più di quella UE. A cui si sommano i 29 miliardi (a fronte di 4 nell’UE e 2 negli USA) confluiti nel segmento dei trasporti e del calore da fonti di energia rinnovabile.

 

La forte domanda interna e i piani di sviluppo dell’autorità centrale, che si prepara a investire altri 360 miliardi di dollari entro il 2020, hanno assicurato al tessuto industriale cinese la leadership globale: attualmente cinque dei sei più importanti produttori al mondo di moduli fotovoltaici sono cinesi, come anche il più importante operatore del settore eolico.

 

Gli Usa

 

Specularmente, anche i due mandati Obama hanno coinciso con un ri-orientamento della strategia energetica statunitense.

 

A partire dall’inizio del nuovo millennio, infatti, lo sviluppo delle tecniche e delle tecnologie di estrazione di idrocarburi, sostenuto dalla fase rialzista dei mercati delle commodities, ha gradualmente sbloccato l’accesso ai giacimenti non convenzionali di petrolio e gas naturale.

 

Il vertiginoso aumento delle riserve provate e della produzione di gas naturale ha progressivamente spinto fuori mercato le centrali a carbone più vecchie, meno efficienti o localizzate in prossimità dei giacimenti shale e/o della rete di trasmissione del gas, che sono state rimpiazzate da più efficienti e meno inquinanti centrali a gas a ciclo combinato.

 

La normativa varata dall’amministrazione Obama in materia di emissioni ha accelerato la transizione, imponendo un corposo taglio della CO2 al settore elettrico.

 

La Casa Bianca si è limitata ad accompagnare il mercato nella direzione in cui stava andando già autonomamente, motivo per il quale l’attuale Presidente, Donald Trump, che aveva promesso un cambio di rotta e nuove prospettive per l’industria del carbone americana, non è in grado di invertire il trend, che rimane inalterato.

 

La chiusura e/o la riconversione a gas di decine di centrali a carbone adibite al carico di base hanno reso la rete statunitense, in cui nel solo biennio 2015-2016 sono confluiti investimenti per 97 miliardi di dollari, molto più dinamica e flessibile.

 

La capacità della rete elettrica di assorbire efficacemente un flusso di energia non programmabile e discontinuo come quello generato dalle NFER è il vero collo di bottiglia della “Green Revolution”, come dimostrano i 50 TWh di energia eolica (il 16% della produzione totale) sprecati dalla rete cinese nel solo 2016.

 

Gli Usa stanno sviluppando una rete, o per meglio dire un sistema di reti e microreti, sempre più compatibile con le caratteristiche peculiari delle NFER.

 

L'Europa nel limbo

 

Mentre Cina e Stati Uniti mostrano, perciò, di perseguire un indirizzo strategico chiaro e ben definito, l’Europa rimane nel limbo dell’incertezza.

 

Pur continuando a investire più dei due competitor in efficienza energetica e nonostante alcuni esempi virtuosi come la Norvegia o la Danimarca, il Vecchio Continente procede in ordine sparso, apparentemente senza una meta precisa.

 

Il paravento dell’efficienza energetica, infatti, nasconde l’incapacità della UE di elaborare una strategia energetica e una politica industriale coerenti e di lungo periodo.

 

Ferme a un approccio funzionalista piuttosto che strategico, ancorate a una prospettiva amministrativa piuttosto che politica, le istituzioni europee non riescono immaginare un modello diverso da quello attuale, mentre il tessuto produttivo si è mosso in ampio ritardo rispetto a quello americano, solo in parte a causa dell’inerzia istituzionale.

 

Priva della capacità di immaginare il futuro, l’Europa confida nella possibilità di migliorare il presente, rischiando, però, di accumulare un notevole ritardo industriale e tecnologico rispetto a Cina e Stati Uniti, che marciano coraggiosamente verso l’avvenire. 

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